Il tentativo di conciliazione nel processo del lavoro non è più obbligatorio: una scelta in controtendenza?

Il c.d. “collegato lavoro” vale a dire la Legge 183/2010, entrata in vigore ormai da quasi un anno (fine novembre 2010), tra le altre novità, ne ha prevista una certamente rivoluzionaria: l’abolizione del tentativo di conciliazione obbligatorio ossia quel tentativo di conciliazione pre-giudiziale che nell’intento del legislatore sarebbe dovuto servire a limitare il contenzioso giudiziario ma che secondo i suoi critici più spietati è servito soltanto a ritardare i tempi di causa e che ora pertanto, dopo anni di controverso servizio (secondo parecchi autori, “di mancato funzionamento”), è andato in pensione.

Il c.d. “collegato lavoro” vale a dire la Legge 183/2010, entrata in vigore ormai da quasi un anno (fine novembre 2010), tra le altre novità, ne ha prevista una certamente rivoluzionaria: l’abolizione del tentativo di conciliazione obbligatorio ossia quel tentativo di conciliazione pre-giudiziale che nell’intento del legislatore sarebbe dovuto servire a limitare il contenzioso giudiziario ma che secondo i suoi critici più spietati è servito soltanto a ritardare i tempi di causa e che ora pertanto, dopo anni di controverso servizio (secondo parecchi autori, “di mancato funzionamento”), è andato in pensione.

Il tentativo obbligatorio, che era previsto dal Codice di procedura quale condizione di procedibilità dell’azione, era promosso mediante spedizione dell’istanza alla controparte ed alla commissione competente la quale, nei 60 giorni successivi, avrebbe dovuto convocare le parti innanzi a sé per esperire la conciliazione. Il condizionale qui è d’obbligo perché in talune sedi metropolitane (ad esempio, Milano) il termine dei 60 giorni veniva rispettato assai di rado ed anzi, nella maggior parte dei casi, la convocazione per la conciliazione giungeva alle parti quando queste erano già impegnate nel contenzioso giudiziario.

Dalle ceneri del tentativo obbligatorio è nato il nuovo tentativo facoltativo, rimesso alla mera volontà delle parti.
La procedura è rimasta pressoché invariata: il richiedente deve spedire l’istanza alla commissione competente a mezzo raccomandata a/r; se la controparte accetta la conciliazione, deposita, nei 20 giorni successivi al ricevimento della copia dell’istanza, la propria memoria difensiva e la commissione, nei 10 giorni successivi, fissa la comparizione delle parti per l’esperimento del tentativo, da tenersi entro ulteriori 30 giorni. In caso di rifiuto invece, ciascuna parte può adire l’autorità giudiziaria.
Se la conciliazione ha esito positivo, se ne redige un verbale che diverrà esecutivo mediante deposito in Tribunale. Se l’esito è negativo, la commissione formula una proposta che le parti sono tenute a valutare per fornire una risposta che potrà avere implicazioni nel successivo giudizio, qualora questo abbia luogo giacché la novità più rilevante del provvedimento consiste nella possibilità di ricorso all’arbitrato quale strumento di risoluzione delle controversie di lavoro alternativo all’autorità giudiziaria.
Al di là della valutazione sull’efficacia della riforma, che soltanto l’esperienza nel tempo potrà fornire, la scelta del legislatore di abolire il carattere di obbligatorietà del tentativo di conciliazione nel processo del lavoro appare in controtendenza rispetto ai provvedimenti, più o meno coevi, che viceversa hanno introdotto lo strumento della mediazione nel processo civile quale rimedio avverso l’inflazione della domanda di giustizia. Come spiegare questo apparente paradosso? Lasciandone la soluzione agli esegeti del diritto positivo, per gli operatori sarà come sempre la realtà professionale ad indicare quale scelta si sarà rivelata vincente


Studio Legale Reichel
Avv. Andrea Cominelli